Descrizione
PROGETTO MAROZIA: IL TEATRO CON L’ALTRO
Dal 2023 per i cittadini di Gubbio è possibile partecipare gratuitamente ai laboratori teatrali del Progetto Marozia, progetto di durata triennale, nato dal protocollo di intesa tra l’associazione Settimana del Libro e il Comune di Gubbio – prima con il supporto della giunta Stirati e in seguito con il patrocinio della giunta Fiorucci– e che coinvolge diverse realtà del territorio quali USL Umbria1, I.I.S. Cassata Gattapone, il polo liceale G. Mazzatinti e la scuola secondaria di I grado Mastro Giorgio - Nelli.
I laboratori si incentrano sulla pratica teatrale e sono svolti di mattina nelle scuole – dai due ai sei incontri - e la sera nei locali messi a disposizione dal comune. Gli incontri serali, dalla durata di un’ora, hanno coinvolto piccoli gruppi di venti persone, le quali, seguendo le indicazioni del regista Riccardo Tordoni, si sono messe alla prova: non c’è un copione o un canovaccio, ma solo musica e parole di guida. L’adesione all’iniziativa non è arrivata solo dalla gioventù eugubina, ma anche da molti adulti: per la seconda edizione, alla quale hanno partecipato oltre cento persone, la fascia di età viaggiava tra i 12 e i 78 anni.
La seconda edizione del progetto, conclusasi lo scorso aprile, prevedeva due giornate di laboratori aperti, spettacoli dalla durata di un’ora, dove sono state mostrate a un pubblico esterno le attività e le pratiche svolte durante l’anno, e la messa in scena dello spettacolo Deep Town con protagonisti i ragazzi del gruppo Coro aperto, compagnia composta da giovani attori che collaborano con il regista.
I laboratori sono stati gestiti e coordinati interamente da Simona Bianchi, per la parte drammaturgica, dai ragazzi di Coro Aperto e da Tordoni, che ci ha parlato in maniera approfondita della nascita del progetto e delle attività svolte.
Perché Marozia?
“Marozia è una delle città invisibili di Italo Calvino. Il racconto mi ha ricordato Gubbio e la sua volontà di emergere. Il tema centrale del racconto è il passaggio dalla cupa ‘era del topo’ alla più gioiosa e prospera ‘era della rondine’. Da questo percorso di metamorfosi nascono due città: quella del topo e quella della rondine, le quali, nonostante i cambiamenti, restano sempre connesse tra di loro, perché l’una dipende dall’altra ed esiste grazie all’altra.
Questo parallelismo non è solo tipico di una città in cerca di emersione, con le sue luci e ombre, ma lo troviamo anche, e soprattutto, nelle persone, ed è proprio da questo concetto che partono i laboratori. Attraverso la pratica teatrale cerchiamo di connettere le maschere che mostriamo ogni giorno con le parti più intime che non lasciamo vivere e che ci spaventano di più”.
Cos’è il teatro per te?
“Il teatro è il momento in cui vengono aperte le porte alle relazioni e alle azioni. Ho studiato recitazione per molto tempo e sono stato attore, ma dopo gli spettacoli sentivo la mancanza di connessione con il pubblico, mi mancava un senso di continuità e di comunità.
Ho capito che grazie al teatro è possibile interagire con l’altro, creare un legame vero anche senza dire nulla, ma lasciando parlare l’azione e il gesto. Per questo vedo nel teatro un bene essenziale, utile per la comunità”.
Come è organizzato il laboratorio? Vi siete ispirati a qualche corrente?
“Il teatro non ha teorie, ciò che comanda è quello che accade in quel determinato momento e tutti, attori e non, devono essere pronti a cancellare quello che è stato progettato e ad adattarsi a quello che sta succedendo. Proprio perché non esiste una vera base teorica, durante i laboratori vengono eseguite pratiche diverse che richiedono di frequentare e di approcciarsi a una zona di sé stessi remota e profonda, adattandosi alla situazione che si sta verificando intorno a noi.
Non c’è un esercizio fisso o un dialogo diretto, a volte si cammina, a volte ci si guarda anche senza dire nulla in tutta l’ora, altre volte si corre con la musica. Quando organizzo il laboratorio penso alle persone con cui devo lavorare e che imparo a conoscere a mano a mano, ragiono sugli strumenti che ho a disposizione, ponendo attenzione alle situazioni di ognuno e tenendo in considerazione che il laboratorio può cambiare anche per una persona sola: se stai insieme a uno stai insieme a tutti.
La parola e il dialogo arrivano in un secondo momento. I partecipanti spesso condividono, sia verbalmente che per iscritto, i loro pensieri e Simona Bianchi gli dona un tono drammaturgico, adattandoli agli spettacoli o ai testi che alla fine del percorso vengono trattati e anche recitati”.
Chi ha aderito maggiormente al progetto?
“Il riscontro c’è stato da tutte le fasce di età e di ogni genere. Ogni persona, adulto o più giovane che sia, ne trae un beneficio diverso. A volte alcune cose sono più adatte ai giovani e altre ai più adulti, ma ho notato che si creano delle piccole comunità che si adeguano in maniera autonoma alle varie situazioni, in poche parole il gruppo si autoregola tantissimo”.
Qual è il tema ricorrente che congiunge i laboratori?
“I temi fondamentali sono due: la presenza, intesa come l’essere dove si è nel momento in cui ci si è, e la costante e continua ricerca dell’altro, o meglio, l’attenzione, la cura e la percezione dell’altro”.
Come si rompono le barriere dell’imbarazzo?
“Occorre ribaltare il luogo comune per cui l’attore o chi fa teatro non sia timido. L’attore non è solo l’istrione e la timidezza non è un deterrente: se ti approcci nel modo giusto è un potenziale perché la persona timida, sostanzialmente, è umile e con grandi margini di potenzialità. Questo è molto importante perché nel laboratorio si compiono azioni concrete e ciò che conta è sapere quello che si sta facendo in quel momento. Il dialogo e la parola arrivano alla fine perché sono l’ultima emanazione del corpo”.
Qual è lo scopo del progetto?
“Non c’è un vero obiettivo, ho voluto fortemente che il progetto si realizzasse perché, come dicevo, vedo nel teatro e nella sua essenza più profonda un servizio e un mezzo per la comunità. Gli iscritti sono stati tanti e il riscontro è stato positivo, si spera che anche per la prossima - e forse ultima edizione – si riceva questa adesione.
Anche se è impensabile creare un format regionale, mi piacerebbe far conoscere i laboratori portando in giro per i teatri lo spettacolo Deep Town, messo in scena dai ragazzi di Coro aperto, ai quali vorrei lasciare il progetto in mano”.
Chi sono i ragazzi si Coro aperto e di cosa parla Deep Town?
“Coro aperto è composto da ragazze e ragazzi - dai 16 ai 28 anni - che si sono appassionati al teatro, anche attraverso i laboratori, e che si sono uniti seguendo un codice interno basato sull’autenticità e sulle emozioni provate in un determinato momento. Nonostante non siano attori professionisti - anche se penso che a qualcuno potrebbe interessare come percorso - con loro sono molto esigente e li tratto come professionisti.
Lo scorso 30 e 31 maggio hanno portato in scena lo spettacolo Deep Town, ispirato alla tragedia di Edipo. Attraverso il mito i ragazzi hanno deciso non solo di trattare temi difficili e di estrema attualità, ma anche situazioni che li hanno toccati da dentro: si è parlato di Covid, dell’isolamento, del rapporto con i genitori, del vivere in un piccolo contesto, della volontà di evasione e di gesti estremi che hanno, purtroppo, toccato le loro vite. Seppur il teatro, di per sé, non sia democratico, poiché lo spettacolo deve comunque essere guidato, loro sono stati molto coinvolti nelle scelte, hanno scritto tantissimo e Simona Bianchi ha adattato alcuni dei loro pensieri alla tragedia originale.
Questo è stato possibile perché i giovani d’oggi sanno guardarsi dentro e hanno voglia di mettersi in gioco, e la tragedia greca - che è catartica per definizione - e la storia di Edipo ci hanno permesso di trattare temi difficili, grandi e scomodi”.
Pensi sia difficile essere giovani adulti al giorno d’oggi e che funzione può avere il teatro?
“I giovani sono sempre sotto minaccia, rischiano di non riuscire a vivere il qui e ora: gli strumenti che abbiamo a disposizione spesso ci portano lontano dalla realtà e ci sviliscono. Ho notato che il lavoro più difficile nei laboratori è l’esercizio con cui chiedo ai partecipanti di mettersi a coppie e di guardarsi negli occhi, in silenzio, per tre minuti: è difficile esserci ed essere con l’altro. Seppur possa sembrare un paradosso, ho notato che c’è più recitato nella vita di tutti giorni che nel teatro: ogni giorno indossiamo delle maschere e molteplici sono i personaggi che dobbiamo interpretare a seconda del contesto e delle aspettative.
Invece, nel teatro vedo la vita vera, perché è là che cerchiamo l’umano, il topo, e affrontiamo anche quelle parti di noi che sembrano estranee, oscure e spaventose. Questo è un processo difficile, soprattutto per i giovani adulti, ma allo stesso tempo essenziale, perché solo attraverso la conoscenza di noi stessi e di ogni nostra parte riusciamo a rompere i pregiudizi e possiamo approcciarci concretamente all’altro.
Penso sia questa la funzione del teatro e per questo che ho creduto molto nella creazione di questo progetto, perché viene data a tutti, indistintamente, l’opportunità di mettersi alla prova, di guardarsi dentro e di relazionarsi con altre persone, favorendo la creazione di legami veri e concreti in un mondo che ci allontana sempre di più”.
Gloria Sannipoli