Descrizione
Quando la sera del primo agosto 2025 ho detto a mia zia che sarei andato alla proiezione di un “film di formazione” – Labirinti di Giulio Donato - non potevo immaginare che la sua reazione quasi delusa sarebbe stata così calzante. I giovani non hanno bisogno soltanto di divertissement, ovvero fuga da sé stessi, ma di prodotti culturali – come l’opera di questo giovane regista – che li aiutino a coltivarsi, addentrarsi palmo dopo palmo nei labirinti del proprio animo e quindi avvicinarsi anche gli uni con gli altri. Per Donato “il labirinto è una metafora delle regole sociali non dette. Può essere un luogo in cui perdersi, nascondersi, oppure trovare la via di fuga. Mi piace che abbia molte interpretazioni. È l’opposto della natura selvaggia: è costruito, ordinato, ma altrettanto potente”.
Il cinema Postmodernissimo di Perugia d’estate va in villeggiatura nei lidi del Fuori Post tra le sdraie sonnecchianti e le più solide sedute ricavate sui gradoni dell’anfiteatro del Barton Park. E quella sera avevo noleggiato anch’io una sdraio, ignaro che la visione, contrariamente alle aspettative di mia zia, non mi avrebbe permesso di appisolarmi e avrei partecipato all’incontro col regista stesso, lì presente, moderato da Riccardo Cozzari, voce del podcast Nostalghia.
Il film, quindi. Non ci troviamo a Siracusa, patria del famoso teatro della Magna Grecia, ma nelle terre calabre di Vazzano, un comune di Vibo Valentia che ha dato i natali al padre di Donato. Il regista vi ha trascorso tutte le estati da bambino e per questo racconta la ciclicità del tempo nei piccoli paesi, dove tutto ruota attorno alla festa patronale. “È in quel momento che il paese si riunisce, che si viene visti e giudicati. La ripetitività della festa è resa dalla ripetizione delle inquadrature. È una metafora universale, non solo calabrese: succede in tanti paesi italiani”.
La natura sembra incontaminata ma nasconde le insidie di una società che, come le piante infestanti, impedisce alle nuove generazioni di scoprire la propria interiorità e la propria unicità. La cultura secolare che si fa Natura, la società che si fa branco. Il contesto influenza profondamente il modo di pensare, di vivere, di relazionarsi. Se il film fosse stato girato in un altro luogo, i personaggi sarebbero stati diversi.
Due amici, Francesco e Mimmo, crescono in questa cornice bucolica dove sembra – a detta di Mimmo – che ci sia tutto, che non manchi nulla. E dove vai a stare peggio? Probabilmente anche Mimmo non era del tutto confinato al perimetro di quella terra e infatti è il migliore amico di Francesco, lo asseconda, ne ascolta le paturnie e le aspirazioni con annuire sornione tra una nuotata al mare e una birra attorno a un falò, lo porta in motorino facendolo reggere a lui o lo scarrozza in macchina nei rientri al paese da Roma, dove Francesco va a studiare, fino a quando, nell’età del sospetto, gli altri del gruppo iniziano coi commenti omofobi su Francesco e lo additano “forse sei anche tu come lui”. La mano che fino a un attimo prima era posata sulla spalla dell’amico si serra in pugni amari. Replica Mimmo: “No, io non sono come questo qui”. Somebody that I used to know, come recita l’omonima canzone di Gotye.
Dal canto suo, nemmeno per Francesco era stato semplice: è vero che aveva sempre avuto un carattere più introverso e riflessivo, ma scoprire sé stessi è straniante come camminare all’interno di un labirinto o come iniziare a leggere un libro che non si conosce. Non è soltanto una metafora: a un certo punto Francesco trova un libro che esercita su di lui un fascino magnetico. Francesco lo nasconde nei pantaloni per non essere preso in giro. “Leggere è visto come qualcosa di strano, diverso”, ha spiegato Donato al Barton Park. “Il libro – che contiene alcuni testi del regista ispirati al racconto Le rovine circolari di Borges - è un espediente narrativo che rappresenta la cultura come qualcosa di esotico, quasi magico. È un modo semplice per raccontare una difficoltà reale, quella di accedere alla cultura in certi contesti”.
Labirinti è un film di formazione perché percorre tutte le tappe della vita e della crescita dei protagonisti, anche se il focus dichiarato è sul periodo adolescenziale. C’è qualcosa del regista in entrambi: Francesco incarna la voglia di emanciparsi, di cambiare il proprio destino. È una spinta che anche lui ha vissuto, nel coraggio di uscire dal branco, di studiare, di andare oltre. Mimmo rappresenta la parte più legata alle radici, alla comunità. Attraverso il libro Francesco entra in contatto col suo alter ego, Finn, un ragazzo biondo e straniero, che da presenza conturbante, al contrario di Mimmo, diventa compagno di viaggio in quel labirinto. È qualcosa di esterno, misterioso, che lo colpisce anche se lo ha visto solo per un attimo. Come quando sogniamo una persona incontrata per caso: ci ha toccato, anche se non sappiamo perché. La ninnananna in sottofondo prelude a un risveglio della coscienza.
Finn Ronsdorf è un cantante tedesco che il regista ha scoperto su YouTube: “L’ho contattato, non era mai stato in Italia, non aveva mai recitato. Viene dalla Foresta Nera, un luogo simile alla Calabria per certi versi. Ha scritto la ninna nanna che canta nel bosco. Inizialmente voleva cantarla in italiano, ma si è deciso per il tedesco: volevo che Francesco non capisse le parole, ma ne fosse affascinato. Era importante che guardasse da lontano qualcosa di ignoto, che lo incuriosisse e lo ammaliasse”.
Oltre al libro c’è un altro elemento quasi sinestetico. Il fuoco-rumore. Nel film si sente crescere un suono, come un terremoto, che accompagna le emozioni del protagonista. Il fuoco è una proiezione del tumulto interiore di Francesco. Alla fine, nella scena della rissa, tutto esplode: il fuoco avvolge Finn. Non siamo le aspettative della nostra famiglia o del nostro villaggio e anche le fattezze fisiche possono ricevere le stigmate del nostro mondo interiore rinnovato ed aperto. Così Finn passa dall’essere alterità a essere metamorfosi, compimento, della personalità di Francesco.
La natura ha un ruolo dominante nello scandire i capitoli della vita dei protagonisti: La Calabria ha una natura viva, antica, quasi preistorica. Rappresenta qualcosa che viene prima di noi, che ci influenza psicologicamente e socialmente. Ma la natura si ripresenta anche a Roma: “Nel museo di zoologia ho ricreato la grotta, come simbolo di questa forza primordiale. La natura è legata al concetto di labirinto: regole non scritte che ci condizionano, che ci formano. Per me il finale con la scena del museo era già sufficiente, ma ho deciso di raccontare anche l’età adulta per dare uno sguardo finale ai due personaggi. Volevo che lo spettatore immaginasse cosa sarebbe potuto accadere, piuttosto che mostrarlo esplicitamente. Se avessi mostrato Francesco all’università o Mimmo rimasto al paese, sarebbero state dinamiche già viste. Mi interessava di più suggerire, lasciare spazio all’immaginazione.”
L’epilogo del film non rappresenta soltanto un possibile sviluppo della vita biografica dei personaggi o un incontro inaspettato fra il ricordo e il flashback, ma fa tracimare il vero destino di ciascuno di noi: diventare “periti” della vita, domare i nostri mostri interiori con la conoscenza, la sensibilità e la curiosità. Imboccare la strada di Francesco e non quella di Mimmo. Ma non ce l’abbiamo con te Mimmo, non ti metteremo le mani addosso e non sentirai da noi parole ingiuriose perché conosciamo bene la fatica del viaggio e la testa che gira più degli hangover, persi nelle siepi del labirinto.
Prendi in mano il libro e aprilo. Infiammati. Conosci te stesso.
Edoardo Batocchi
È possibile seguire lo streaming dell’incontro col regista
Labirinti al Fuori Post - Video dell'incontro col regista Giulio Donato e Fotogallery
crediti “foto PostModernissimo”